La legittimità di un salario adeguato per i ministri di Dio

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La legittimità di un adeguato salario per i ministri di Dio

Francesco Turrettini (1623-1687), teologo e professore all'accademia di Calvino, spiega come i ministri di Dio debbano essere pagati e come questo si rapporti alle offerte della chiesa, contro le obiezioni poste originalmente dagli Anabattisti e che si sentono ancora oggi.

28. E' dovuto un salario ai ministri della chiesa? Lo affermiamo contro le obiezioni degli Anabattisti.

I. Questa questione è stata agitata prima dagli Anabattisti, che affermavano come l'Evangelo dovesse essere predicato gratuitamente, o da persone ricche che abbiano mezzi sufficenti per vivere, oppure da persone più povere che di procurano da sé stesse quanto loro serve per vivere per mezzo di arti meccaniche (banauso) ed il loro lavoro, secondo l'esempio di Paolo, che lavorava producendo tende, affaticandosi con le proprie mani (1 Corinzi 4:12). Essi, così, considerano i ministri riformati non come veri ministri, ma come mercenari che considerano il proprio ministero tanto quanto un qualsiasi altro lavoro e che sono soliti a dedicare o a vendere il loro lavoro a chi può dare loro il compenso migliore. Essi riconoscono, certo, che la chiesa sia tenuta a supplire ai suoi ministri quanto è loro necessario (Articolo 78, Protocollo. . . des gesprecks tho Emdden in Oistfrieszlandt[1579], pp. 233-36). In questo caso soltanto, però, se essi non hanno i mezzi per sostenere onestamente le loro famiglie, o attraverso il loro patrimonio od un commercio o vocazione di questo mondo. Oltre a questo caso, essi sostengono che i ministri siano tenuti a predicare per amore e gratuitamente.

II. L'ortodosso, però, sostiene che un ministro non solo possa, ma debba pure vivere con i proventi del suo ministero. Sebbene in caso di necessità, quando cioè, non possa essere sostenuto né dalla chiesa che serve, né dagli altri, egli potrà [volontariamente] fornire l'Evangelo senza spese (adapanon); anzi, persino oltre il caso di necessità, sulla base di ragioni serie, per amore, ritenendolo la cosa più saggia e cristiana da fare, egli potrà certamente rimettere quel debito ad una qualsiasi chiesa, e così vivere di elemosine temporaneamente o per sempre. Questo, però, non dipende da un loro diritto in questo senso, divino od umano che sia. [Normalmente, però] la chiesa è assolutamente tenuta a raccogliere e pagare un giusto salario [al suo ministro].

III. Le ragioni di questo sono: (1) da un testo dell'apostolo Paolo (1 Corinzi 9:14-19) che fonda questa stessa dottrina. Qui l'Apostolo non solo esige per sé stesso e per tutti i ministri il diritto e la facoltà di ricevere un dovuto salario, ma lo conferma con diverse argomentazioni tratte sia dal diritto divino che naturale e da esempi approvati. Il primo esempio è tratto dagli apostoli: "Non abbiamo noi il diritto di condurre attorno una sorella in fede come moglie, che fanno anche gli altri apostoli, i fratelli del Signore e Cefa? O soltanto io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?" (5,6). Il secondo esempio è l'analogia con un soldato, un contadino, un pastore, ai quali il senso naturale di giustizia e la ragione insegnano che loro è dovuto un compenso per il lavoro che svolgono: "Chi mai va alla guerra a proprie spese? Chi pianta una vigna e non ne mangia il frutto? O chi si prende cura di un gregge e non mangia del latte del gregge?" (7). Il terzo esempio è la prescrizione della legge a proposito di un bue che viene usato per trebbiare, dall'inferiore al maggiore, perché la bocca del bue che viene usato per trebbiare il grano non deve essere posta in una museruola (Deuteronomio 25:4). Allo stesso modo in cui Dio proibisce di allontanare il bue che lavora dalla mangiatoia, quanto meno il ministro della chiesa dovrebbe essere privato del frutto del suo lavoro. Da questa legge egli non considera tanto i buoi, ma gli uomini affinché essi non siano defraudati dal giusto compenso per il loro lavoro: "Nella legge di Mosè infatti sta scritto: «Non mettere la museruola al bue che trebbia». Si dà forse Dio pensiero dei buoi? Ovvero, dice tutto questo per noi? Certo queste cose sono scritte per noi, perché chi ara deve arare con speranza, e chi trebbia deve trebbiare con la speranza di avere ciò che spera". Il quarto esempio è tratto dal confronto di cose non uguali, il lavoro e la paga: "Se abbiamo seminato fra voi le cose spirituali, è forse gran cosa se mietiamo i vostri beni materiali?" (11). Il quinto esempio dall'ordinamento stesso stabilito da Dio sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento: " Non sapete voi che quelli che fanno il servizio sacro mangiano delle cose del tempio, e quelli che servono all'altare hanno parte dei beni dell'altare? Così pure il Signore ha ordinato che coloro che annunziano l'evangelo, vivano dell'evangelo" (13,14).

IV. (2) Dal comando di Cristo, dove, mandato gli apostoli a predicare l'Evangelo in Giudea, Egli proibisce loro dal portare con sé alcunché (neanche cibo), ma desidera che essi vivano a spese di coloro per i quali sono mandati (Marco 10:10; Luca 19:7). Per questo egli fornisce una giusta ragione, cioè "L'operaio è degno della sua ricompensa". Questo significa che un sostegno (ta biotica) non è meno giusto per i ministri dell'Evangelo da coloro che ricevono il loro servizio, che il salario per l'operaio che svolge il suo lavoro. Né bisognerebbe obiettare con le parole di Cristo: "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Matteo 10:8). E' chiaro che qui Egli non parla della predicazione dell'Evangelo, ma della grazia dei miracolosi doni di guarigione e di potenza, per i quali Egli proibisce di ricevere un compenso né tanto meno che si possano vendere, come nel caso di Simon Mago (Atti 8:18). "Guarite gli infermi, mondate i lebbrosi, risuscitate i morti, scacciate i demoni; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Matteo 10:8). Questo non può essere esteso alla giusta paga che devono ricevere i ministri, come dimostrano le parole citate dal versetto 10. Perché mai, infatti, Egli avrebbe voluto che gli apostoli fossero sostenuti dai loro uditori - perché l'operaio è degno del suo salario - se essi dovrebbero predicare gratuitamente?

V. (3) Dai salari dei ministri sacri nell'Antico Testamento (Numeri 18:8-12), ai quali erano normalmente dati sacrifici, decime, primizie ed altre simili cose, oltre a certe città e campi suburbani (Numeri 35:1-8). Ora, sebbene nel Nuovo Testamento noi non si sia più legati da tali leggi quanto alle speciali sostanze di cui erano fatti oggetto, esse rimangono in quanto analogia, com'è evidente dal brano già citato (1 Corinzi 9:13).

Vi. (4) Dall'esempio stesso di Cristo e degli apostoli, che non rifiutavano di ricevere dai credenti quanto era necessario per il loro sostegno. Cristo era sostenuto dai beni di alcune donne (ta hyparchonta, Luca 8:3), Paolo dai Filippesi (Filippesi 4:10,15,16). In 2 Corinzi 11:8 egli afferma d aver ricevuto uno stipendio (opsonion) per servire a Corinto per potere predicare loro l'Evangelo di Dio liberamente (cioè, per evitare l'accusa di avidità o di sporco lucro che falsi apostoli gli rivolgevano).

VII. (5) Dalle minacce che seguono contro chi non paga come dovrebbe. Non pagare ai ministri di Dio il salario che è loro dovuto è considerato fra i peccati più gravi di ingiustizia che si possano commettere e come empietà verso Dio. Dio, infatti, minaccia di castigare, mentre promette le Sue benedizioni a coloro che fanno l'opposto (Malachia 3:8,10,12; Neemia 13:10,11; Galati 6:6,7). "Non v'ingannate, Dio non si può beffare, perché ciò che l'uomo semina quello pure raccoglierà", dice l'Apostolo.

VIII. (6) Dalle assurdità e dagli svantaggi che ne seguono. Qualora si negasse la necessità di un salario, ne conseguirebbe (a) che nell'elezione dei ministri, sarebbero considerate le qualità e le prerogative carnali, si sceglierebbe chi potesse sostenersi con i propri mezzi e predicasse gratuitamente. Questo risulterebbe nell'esclusione al ministero dei migliori e più meritevoli; (b) Si creerebbe la discriminazione più pericolosa fra i ministri. Alcuni fornirebbero l'Evangelo senza nulla pretendere (adapanon) in tutta coscienza verso Dio e per amore; altri aggraverebbero la chiesa con le loro necessità e così sarebbero meno rispettati, meno graditi e piacerebbero di meno; (c) i salari verrebbero così trasformati in elemosina, e i ministri dovrebbero vivere con elemosine (il che è falso) e la loro condizione sarebbe resa disprezzabile. Per questo motivo saggiamente si prevede nel sistena delle chiese riformate di Francia che un salario sia assegnato a ciascun pastore e che nessuno sia posto a questo ufficio essendone privo (cfr. "La disciplina delle chiese riformate di Francia", Canone 42, in Quick, Synodicon [1692], 74).

IX. (7) Per un senso naturale di giustizia ed equità, la cui regola l'Apostolo indica in 2 Corinzi 8:13,14, che non permette che uno abbia vantaggi a danno di un altro, e uno fosse aggravato e l'intera comunità sollevata. No, l'equità esige che"colui che è istruito nella parola faccia parte di tutti i suoi beni a colui che lo istruisce" (Galati 6:6; Tito 3:13) e che coloro che ricevono da uno cose spirituali, almeno gli diano cose temporali.

X. Una cosa è non avere il diritto di esigere e domandare un salario, altra è di non volere farne uso per certe ragioni. Rimanendo questo diritto, infatti, il suo esercizio può anche essere sospeso di tanto in tanto. Paolo rinuncia per un certo periodo a questo suo diritto, e per buone ragioni (Atti 20:33; 2 Tessalonicesi 3:8,9). Egli, però, stabilisce una regola che né lui né altri ministri sono tenuti a seguire, dato che leggiamo in un altro luogo come egli faccia uso di questo suo diritto.

XI. La retribuzione (misthophoria) è una cosa, l'amore per il denaro (philargyria) un'altra. In Michea 3:11, i sacerdoti "insegnano per un salario, i suoi profeti compiono divinazioni per denaro" (cioè, insegnano ciò che è falso per carpire denaro ai ricchi, annunciano, cioè, cose gradite e promettono benezioni per poterne ricevere un profitto più ricco. Essi, infatti, dovrebbero piuttosto riprendere i peccati degli ascoltatori ed esortarli al ravvenimento minacciando, in caso contrario, un castigo. Non è possibile, però, dedurre da questo abuso che non si debba esigere alcuna paga, perché Dio, nella Sua legge, ha provveduto a che quegli stessi sacerdoti che erano accusati di avidità, fossero generosamente sostenuti.

XII. Una cosa è accedere al ministero solo a causa della paga ricevuta e per guadagno, altra cosa è richiedere un legittimo salario e accordarsi di adempiere al ministero in modo corrispondente. Il primo atteggiamento caratterizza i mercenari, che lo fanno solo per potere lucrare, dal loro ministero, un guadagno, il secondo caratterizza i veri pastori. Se non fosse loro dovuto alcun denaro per l'opera che svolgono, sarebbe veramente una colletta arbitraria e gratuita (come le elemosine). Allora non sarebbe lecito accordarsi per una certa paga e questo tipo di stipulazioni sarebbero sordide e simoniache. In quanto, però, il salario è giustamente dovuto per precisa prescrizione di Dio e di Cristo, è legittimo impegnarsi per esso, quando non può essere ottenuto altrimenti e in modo adatto. Né in questo vi è alcuna macchia di disposizione mercenaria o un suo sospetto. Basta che il salario sia moderato, non gravi troppo sul gregge e sia sufficiente per sostenere onestamente il pastore e la sua famiglia. Le modalità di questo pagamento dovrebbero essere determinate da un saggio consiglio e dal comune consenso della chiesa. Se si negasse questo in modo pertinace, malvagio ed ingrato (non per povertà), la comunità non sarebbe degna di avere la predicazione della Parola di Dio, e dovrebbe essere abbandonata dai loro pastori!

XIII. Se un qualsiasi ministro gode di risorse personali sufficienti per sostenere sé stesso e la sua famiglia in modo convenevole ed onesto, neanche per questo deve essere defraudato della paga a cui ha diritto per il suo ministero. Né dovrebbe, se non per ragioni particolari, rifiutare di essere retribuito per il suo lavoro (1 Corinzi 9:18) per non apparire uno che cerchi la gloria di una certa superiore santità o riflettesse discredito dei suoi colleghi più poveri. Una comunità che accettasse di non fornire alcun salario, potrebbe danneggiare i suoi successori e l'intera chiesa, che non sempre può assicurarsi un ministero senza spese (adapanon). Però, dato che ciascuno è padrone del salario ottenuto con il suo lavoro, è giusto che di propria e non per altrui iniziativa, egli lo devolva ai poveri o lo destini ad altri usi che ritiene convenevoli.

XIV. In ogni caso, questo salario può essere pagato in diversi modi, o tramite le offerte volontarie dei credenti che liberalmente contribuiscono dai loro averi per l'uso comune della chiesa sulla base di amore e giustizia cristiana (come fatto dai primi cristiani al tempo degli Apostoli e per qualche tempo successivo); o, per mutuo consenso e e pagamento congiunto di diversi contributori assieme; o pagato dal tesoro pubblico da parte delle autorità civili cristiane; o tratto da decime; oppure, finalmente, dal ricavato annuale dei prodotti dei campi e delle fattorie, dato e lasciato alla chiesa e da altre proprietà ecclesiastiche. Ora, in qualunque forma questo salario sia procurato fa poca differenza, basta che sia messo insieme un salario sufficiente per l'onesto sostegno del pastore e della sua famiglia; non troppo grande, conducendo così al lusso ed all'orgoglio, più di quanto sia sufficiente e necessario. Entrambi gli estremi, infatti, sono pericolosi e devono essere evitati, perché non sia o disprezzato da un popolo ingrato o debba sopportare troppe ristrettezze, oppure ancora divenga stravagante ed indulga nel lusso, nel comodo e nella vana ostentazione quando è un ammontare troppo grande e splendido, com'era nel caso del papato.

XV. Sebbene un pastore sia tenuto, in certi casi, a lavorare senza paga (gratis), se indubbiamente egli ha i mezzi a lui necessari e la chiesa è molto povera e fondata da poco tempo e quindi debole (che non potrebbe ricevere l'Evangelo se non gratuitamente), o quando le sette rimproverano i nostri ministri per non farlo, non ne consegue che questo diritto non dovrebbe appartenere loro. Se la chiesa è sufficientemente ricca, ma non è disposta o per avarizia o per disprezzo del suo ministero a fornire il salario necessario, è legittimo che il pastore lasci quella chiesa (dopo aver tentato ogni altro mezzo) e offra sé stesso per il ministero di un'altra chiesa.

XVI. Se ci si chiede che cosa dobbiamo pensare dei servizi gratuiti resi dai monaci, e specialmente dai Gesuiti (che leggiamo essere stati prescritti da Ignazio, il fondatore dell'ordine, cfr. La Costituzione della Società di Gesù, Pt. VI. 2.7 [566] [trans. G.E. Ganss, 1970], p. 256), la risposta è facile - non si tratta che di sfacciata ipocrisia, diventando questa un'impudente e traditrice licenza di ammassare beni. Infatti, qualunque cosa essi possano fingere di insegnare gratuitamente, essi pure sono avvezzi a ricevere prontamente i terreni migliori, le più ricche aziende agricole e gli immensi profitti che fanno tramite donazioni o elemosine. Di fatto il loro servizio è pagato, non è affatto gratuito (dorean) ma è reso sulla base dei favori ricevuti (cioè, da quelli che esprimono la loro riconoscenza rimunerando il servizio ricevuto).

XVII. Per quanto riguarda poi le proprietà ecclesiastiche, a proposito della loro origine ed aumento, è certo che la cosa ebbe origine al tempo stesso di Cristo, attraverso le pie offerte e doni dei credenti, e specialmente quanto delle donne provvedevano, com'è menzionato in Luca 8:2,3.L'amministrazione di questo denaro era affidata a Giuda, che era tenuto a spenderne in parte per il beneficio di Cristo e degli apostoli, in parte da donarsi ai poveri (com'è spiegato in Giovanni 12:5,6). Dopo l'Ascensione di Cristo, la prima chiesa cristiana si raccoglieva a Gerusalemme, in parte per testimoniare amore, in parte per essere meno esposta agli attacchi dei loro nemici e dalla quale sarebbero più facilmente fuggiti. Essi mettevano tutto ciò che avevano in un tesoro comune, i più ricchi sollevando i bisogni dei più poveri, persino tramite la vendita dei loro terreni (Atti 2:44,45; 4:32,34,35). Questa comunità dei beni, però [non per possedere (kata ktesin),ma per usarne (kata chresin)] non era usata al di fuori di Gerusalemme nelle altre chiese, né era durata molto. E' così che ogni chiesa particolare aveva il proprio tesoro in cui versava i doni e le collette che erano fatte (come appare dalle difese di Giustino e Tertulliano).

XVIII. Gli scrittori non concordano nel determinare in quale periodo la chiesa avesse cominciato a possedere terre e grandi proprietà. E' certo che persino prima di Costantino, le chiese avevano ottenuto in dono terreni e fattorie, e che la chiesa di Roma si era particolarmente arricchita rispetto alle altre attraverso grandi donazioni. Esse non solo erano sufficienti per sostenere il clero ed i poveri, ma anche per aiutare altre chiese. Questa vasta profusione di beni era ancor più aumentata al tempo di Costantino (ecco perché questa chiesa arricchita si gonfiava sempre di più). Questo imperatore, infatti, nel suo zelo per la religione cristiana, aveva restituito alle chiese ciò che i suoi predecessori avevano loro sottratto, aveva loro elargito grandi doni tratti anche dall'oro e dall'argento delle statue delle divinità pagane distrutte. Quanto però donare alla chiesa la stessa città di Roma e l'impero occidentale, cosa che gli è attribuita ("Decreti," Pt. I, Dist. 96.13 Corpus Juris Qmonici [1959], 1:342), è stato provato essere un falso, e la cosa è affermata anche dagli eruditi cattolici-romani: Pietro de Vinea, Dante, Marsilio di Padova, (Nicola di) Cusa, Valla, Otho Friesingen, Volaterranus, Nauclerus; e persino da Enea Silvio (Papa Pio II) stesso. Sembra quindi che questa donazione (qualunque fosse), sia stata fatta da Pipino III, e non da Costantino (beché questi abbia già elargito alla chiesa doni generosissimi). E' molto più vicino alla verità che i papi (essendo l'Italia afflitta e divisa da guerre intestine) occuparono con violenza e frode non poche città e domini e ambissero a queste o quelle donazioni.

XIX. Aumentando, poi, la superstizione (il popolo comune era giunto a credere che non vi fosse malvagità o atrocità tanto grande da non poter essere espiata da donazioni di questo tipo), la forza di queste ricchezze strabordanti non potè più essere contenuta da alcuna diga, tanto che la chiesa - per questa immensa inondazione - vide la sua gloria spirituale totalmente distrutta, tanto da degenerare nello splendore e lusso di una monarchia profana. E' vero, così, quel che si dice: "La religione ha partorito molte ricchezze, ma le figlie hanno divorato la madre". Chi desidera ulteriormente investigare il tema dell'origine e dell'aumento dei beni ecclesiastici, consulti Hospiniano ("De Templis," 5 ["De origine…et bonorum ecclesiasticorum"] Opera Omnia [1681], 1:397-443), Voetius (Poiiticae Ecclesiasticae, Pt. I [1666], Bk. IV, Tract. II, pp. 595-797) e il trattato aureo dell'italiano Paolo Sarpi di Venezia (Trattato su questioni di beneficenza [1686]).

Francesco Turrettini, Istituzioni, Vol. 3 (Pagine 270-275)

Originalmente da: qui

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