La dottrina della predestinazione assoluta - Capitolo 3

From Diwygiad

LA DOTTRINA DELLA

PREDESTINAZIONE ASSOLUTA

ENUNCIATA E AFFERMATA


Girolamo Zanchi (1516–1590)


CAPITOLO III

CONCERNENTE L’ELEZIONE A VITA, O PREDESTINAZIONE RELATIVA AI SANTI IN PARTICOLARE





AVENDO considerato la predestinazione relativamente a tutti gli uomini in generale, e mostrato brevemente che per essa alcuni sono ordinati ad ira e altri a ottenere salvezza per mezzo di Gesù Cristo (1 Tes. 5.9), giungo ora a considerarne, più distintamente, quel ramo che riguarda solo i santi, ed è comunemente definito elezione. Ne ho già fornito la definizione nella conclusione del primo capitolo. Quanto devo ulteriormente illustrare, dalle Scritture, su questa importante materia, lo ridurrò ad alcuni punti, e allegherò una breve spiegazione e conferma di ognuna.

PUNTO 1.– Coloro che furono ordinati a vita eterna, non furono ordinati sulla base di alcun merito previsto in essi, o di alcuna buona opera che da essi sarebbe stata compiuta, né per la loro fede futura, ma semplicemente e unicamente per la libera, sovrana grazia, e secondo il puro beneplacito di Dio.

Questo è evidente, fra le altre considerazioni, da questo: che la fede, il ravvedimento e la santità sono liberi doni di Dio precisamente come la stessa vita eterna. “La fede... non è da voi, è il dono di Dio” (Efe. 2.8). “A voi è stato di grazia dato… di credere in lui” (Fili. 1.29). “Iddio l’ha esaltato con la sua destra, e l’ha fatto Principe e Salvatore, per dar ravvedimento ad Israele” (Atti 5.31). “Iddio adunque ha dato il ravvedimento eziandio a’ Gentili, per ottener vita” (Atti 11.18). In modo simile la santità è chiamata la santificazione dello Spirito (2 Tes. 2.13), perché lo Spirito Divino ne è l’agente nell’anima, e da profani, ci rende santi. Ora, se il ravvedimento e la fede sono doni, e la santificazione è l’opera di Dio, allora non sono frutti del libero arbitrio dell’uomo, né una cosa che egli conquista da sé, e dunque non possono essere né motivi, né condizioni della sua elezione, la quale è un atto della mente Divina, antecedente e svincolato da ogni qualsivoglia qualità nelle persone elette. Inoltre, l’apostolo asserisce esplicitamente che l’elezione non proviene dalle opere, ma da Colui che chiama, e che avvenne prima che le persone coinvolte avessero compiuto sia bene che male (Rom. 9.11).

Ancora, se la fede o le opere fossero la causa dell’elezione, non si potrebbe dire che è Dio a sceglierci, ma che siamo noi a scegliere Lui, contrariamente all’intero senso della Scrittura: “Voi non avete eletto me, ma io ho eletti voi” (Gv. 15.16). “In questo è la carità: non che noi abbiamo amato Iddio, ma ch’egli ha amati noi…. Noi l’amiamo, perciocchè egli ci ha amati il primo” (1 Gv. 4.10, 19). L’elezione è descritta ovunque come un atto di Dio, non dell’uomo (Mc. 13.20; Rom. 9.17; Efe. 1.4; 1 Tes. 5.9; 2 Tes. 2.13). Di nuovo, noi fummo eletti affinché potessimo essere santi, non perché fu previsto che lo saremmo stati (Efe. 1.4), quindi rappresentare la santità come la ragione per cui noi fummo eletti significa rendere l’effetto antecedente alla causa. L’apostolo aggiunge (v. 5), “avendoci predestinati secondo il beneplacito della sua volontà”, intendendo in modo palese che Dio non vide nulla extra se, non ebbe alcuna motivazione esterna, per cui avrebbe dovuto scegliere alcuno o un uomo invece di un altro. In una parola, gli eletti furono amati liberamente (Os. 14.4), liberamente scelti (Rom. 11.5, 6), e liberamente redenti (Isa. 52.3), sono liberamente chiamati (2 Tim. 1.9), liberamente giustificati (Rom. 3.24), e saranno liberamente glorificati (Rom. 6.23). Il grande Agostino, nel suo libro delle Ritrattazioni, riconosce intelligentemente il suo errore d’aver pensato in precedenza che la fede prevista fosse una condizione dell’elezione; sostiene che quell’opinione è parimenti empia e assurda, e dimostra che la fede è uno dei frutti dell’elezione, e di conseguenza non potrebbe esserne, in alcun senso, la causa. “Non avrei mai potuto asserire”, dice, “che Dio nell’eleggere gli uomini per la vita ebbe alcun rispetto per la loro fede, se avessi considerato come avrei dovuto che la fede stessa è un Suo dono”. E, in un altro suo trattato[1], ha queste parole: “Poiché Cristo dice, ‘Non voi avete eletto me’, etc., domando volentieri se sia Scritturale dire che dobbiamo avere fede prima di essere eletti, e non, piuttosto, che noi fummo eletti affinché avessimo fede?”

PUNTO 2.– Quanti sono ordinati a vita eterna sono ordinati a godere di quella vita in e per mezzo di Cristo, e sulla base dei Suoi soli meriti (1 Tes. 5.9). Qui osserviamo con attenzione che non i meriti di Cristo, ma solo l’amore sovrano di Dio è la causa dell’elezione stessa, ma poi i meriti di Cristo sono la sola causa che procura quella salvezza per la quale gli uomini sono eletti. Questo decreto di Dio non ammette alcuna causa esterna a Sé Stesso, ma la cosa decretata, che è la glorificazione dei Suoi eletti, può e di fatto ammette, anzi, richiede necessariamente, una causa meritoria, che non è altro che l’obbedienza e la morte di Cristo.

PUNTO 3.– Coloro che sono predestinati alla vita sono parimenti predestinati a tutti quei mezzi che sono indispensabilmente necessari affinché essi siano adeguati a quella vita, possano entrarvi e goderne, come il ravvedimento, la fede, la santificazione e la perseveranza in questi fino alla fine.

“Tutti coloro ch’erano ordinati a vita eterna credettero” (Atti 13.48). “In lui ci ha Dio eletti avanti la fondazione del mondo, acciocché siamo santi, ed irreprensibili nel suo cospetto, in carità” (Efe. 1.4). “Poichè noi (ovvero, gli stessi che Egli aveva eletto prima della fondazione del mondo) siamo la fattura d’esso, essendo creati in Cristo Gesù a buone opere, le quali Iddio ha preparate, acciocchè camminiamo in esse” (Efe. 2.10). E similmente l’apostolo assicura ai Tessalonicesi, ai quali ricorda la loro elezione e la loro eterna preordinazione da parte di Dio ad ottenere la salvezza, che questa è la volontà di Dio per loro, cioè la loro santificazione (1 Tess. 1.4, 5.9, 4.3), e mostra loro tutti questi privilegi insieme. “Iddio vi ha eletti dal principio a salute, in santificazion di Spirito, e fede alla verità” (2 Tess. 2.13). Come anche l’apostolo, “eletti, secondo la preordinazion di Dio Padre, in santificazione di Spirito, ad ubbidienza, e ad esser cospersi col sangue di Gesù Cristo” (1 Pie. 1.2). Ora, sebbene la fede e la santità non siano rappresentate come la causa per la quale gli eletti sono salvati, nondimeno queste sono rappresentate costantemente come i mezzi attraverso cui essi sono salvati, o come la via prestabilita con cui Dio conduce il Suo popolo alla gloria, essendo queste benedizioni conferite sempre prima di essa. Conforme a tutto questo è il pensiero di Agostino:[2] “Tutte le persone che, mediante le ricchezze della grazia Divina, sono esentate dalla sentenza originale di condanna, sono indubbiamente condotte ad ascoltare il Vangelo, e quando lo ascoltano, sono indotte a credervi, e parimenti a perseverare fino alla fine nella fede che opera per amore, e anche se in qualche momento dovessero deviare, sono recuperate e corrette”. Poco dopo aggiunge: “Tutte queste cose sono operate in essi da quel Dio che li creò come vasi di misericordia, e che, per l’elezione della Sua grazia, li elesse, nel Suo Figlio, prima della fondazione del mondo”.

PUNTO 4.– Nessuno degli eletti può perire, ma devono necessariamente essere salvati. La ragione è questa: poiché Dio in modo semplice e immutabile vuole che tutti coloro che Egli ha ordinato alla vita debbano essere glorificati in eterno, e, come fu osservato verso la fine del capitolo precedente, tutti gli attributi Divini sono coinvolti nella realizzazione di questa Sua volontà. La Sua sapienza, che non può errare; la Sua conoscenza, che non può essere ingannata; la Sua verità, che non può fallire; il Suo amore, che nulla può alienare; la Sua giustizia, che non può condannare nessuno per cui Cristo morì; la Sua potenza, a cui nessuno può resistere; e la Sua immutabilità, che non può mai variare. Da tutto questo è evidente che non parliamo affatto impropriamente quando diciamo che la salvezza del Suo popolo è necessaria e certa. Ora, si definisce necessario ciò che non può essere altrimenti da ciò che è (quod nequit aliter esse), e se tutte le perfezioni di Dio sono impegnate a preservare e a salvare i Suoi figli, la loro sicurezza e salvezze devono essere, nel senso più rigoroso della parola, necessarie. (Vedi Salmo 103.17 e 125.1,2; Isa. 45.17 e 54.9,10; Ger. 31.3 e 32.40; Gv. 6.39, 10.28,29, 14.19 e 17.12; Rom. 8.30,38,39 e 11.29; 1 Cor. 1.8,9; Fil. 1.6; 1 Pie. 1.4,5).

Così Agostino:[3] “Di coloro che Dio ha predestinato nessuno può perire, in quanto essi sono i Suoi eletti”, e ib. “Essi sono gli eletti che sono predestinati, preconosciuti e chiamati secondo il suo proposito. Ora, se uno qualunque di questi potesse perire, Dio sarebbe frustrato nella Sua volontà ed aspettative; ma Egli non può essere frustrato in tal modo, dunque essi non possono mai perire. Ancora, se potessero perdersi, la potenza di Dio sarebbe resa vana dal peccato dell’uomo, ma la Sua potenza è invincibile, dunque essi sono al sicuro”. E nuovamente, nel cap. 9, “I figli di Dio sono scritti, con irremovibile fermezza, nel libro della memoria del loro Padre”. E nel medesimo capitolo egli usa queste parole: “Non i figli della promessa, ma i figli della perdizione periranno, perché i primi sono i predestinati che sono chiamati secondo la determinazione Divina, nessuno dei quali alla fine si smarrirà”. Così, analogamente, si esprime Lutero:[4] “Il decreto di Dio della predestinazione è saldo e certo, e la necessità che ne risulta è, in modo simile, inamovibile, e non può che realizzarsi. Perché noi stessi siamo così deboli che, se la questione fosse lasciata nelle nostre mani, pochissimi, o piuttosto, nessuno, sarebbe salvato, ma Satana ci sconfiggerebbe tutti.” A questo aggiunge: “Ora, poiché questo saldo e inevitabile proposito di Dio non può essere invertito né annullato da alcuna creatura, noi abbiamo la più salda speranza che trionferemo sul peccato, anche se al presente dovesse infiammare violentemente i nostri corpi mortali.”

PUNTO 5.– La salvezza degli eletti non fu l’unico né il principale fine per cui furono scelti, ma il grandioso fine di Dio, nell’ordinarli alla vita e alla felicità, fu di manifestare le ricchezze della Sua misericordia, e affinché Egli potesse essere glorificato nelle e dalle persone che aveva in tal modo scelto.

Per questa ragione gli eletti sono chiamati vasi di misericordia, perché furono creati in origine, e successivamente ricreati dallo Spirito Divino, con questo intento e per questo fine, che la sovranità della grazia del Padre, la libertà del Suo amore, e l’abbondanza della Sua bontà potessero essere manifestate nella loro eterna felicità. Ora, Dio, come abbiamo avuto occasione di osservare più d’una volta, non fa nulla nel tempo che non abbia deciso autonomamente dall’eternità di fare, e se Egli, nel tempo, crea e rigenera il Suo popolo con l’intento di manifestare la Sua illimitata misericordia, Egli deve conseguentemente aver deciso da tutta l’eternità di farlo con lo stesso intento. Così, gli intenti finali dell’elezione appaiono essere questi due: primo e principalmente, la gloria[5] di Dio; secondo, e subordinato, la salvezza di coloro che Egli ha eletto, dalla quale sorge la prima, e per mezzo della quale essa è illustrata e avviata. Così, “Il Signore ha fatto ogni cosa per sè stesso” (Pro. 16.4), e da cui Paolo, “Egli ci ha eletti… alla lode della gloria della Sua grazia” (Efe. 1).

PUNTO 6.– Il fine dell’elezione, in relazione agli eletti stessi, è la vita eterna. Dico che questo fine e i mezzi che vi conducono, come il dono dello Spirito, la fede, ecc., sono così inseparabilmente connessi tra loro che chiunque possegga questi sicuramente otterrà il fine, e nessuno può ottenerlo se prima non possiede questi. “Tutti coloro ch’erano ordinati a vita eterna”, e nessun altro, “credettero” (Atti 13.48). “Iddio l’ha esaltato con la sua destra... per dar ravvedimento ad Israele, e remission de’ peccati” (Atti 5.31): non a tutti gli uomini, o a coloro che non furono, nel consiglio e proposito di Dio, separati per Sé stesso, ma ad Israele, a tutto il Suo popolo eletto, i quali Gli furono consegnati, furono da Lui riscattati, e saranno da Lui salvati con una salvezza eterna. “Secondo la fede degli eletti di Dio” (Tito 1.1), tanto che la vera fede è una conseguenza dell’elezione, appartiene in modo peculiare agli eletti, e produrrà la vita eterna. “Egli ci ha eletti… affinché fossimo santi” (Efe. 1), quindi tutti coloro che sono eletti sono resi santi, e nessuno tranne loro; e tutti coloro che sono santificati hanno il diritto di credere di essere stati eletti e che saranno certamente salvati. “E coloro ch’egli ha predestinati, essi ha eziandio chiamati; e coloro ch’egli ha chiamati, essi ha eziandio giustificati; e coloro ch’egli ha giustificati, essi ha eziandio glorificati” (Rom. 8.30), che mostra che la chiamata efficace e la giustificazione sono indissolubilmente connesse con l’elezione da una parte e con l’eterna felicità dall’altra; che esse sono una prova della prima e un pegno della seconda. “Voi non credete, perciocchè non siete delle mie pecore” (Gv. 10.26); al contrario, coloro che credono, dunque, credono perché sono delle Sue pecore. La fede, quindi, è una prova dell’elezione, o dell’essere nel numero delle pecore di Cristo; e di conseguenza, della salvezza, poiché tutte le Sue pecore saranno salvate (Gv. 10.28).

PUNTO 7.– Gli eletti possono, per mezzo della grazia di Dio, raggiungere la conoscenza e la sicurezza della loro predestinazione a vita, e dovrebbero cercarle. Il Cristiano può, per esempio, ragionare così: “Coloro che erano ordinati a vita eterna, credettero; per misericordia io credo, quindi sono ordinato a vita eterna. Chi crede sarà salvato; io credo, quindi sono in uno stato di salvezza. Coloro che Egli ha predestinato, li ha chiamati, giustificati e glorificati; io ho ragione di credere che Egli mi abbia chiamato e giustificato; quindi posso guardare indietro con certezza alla mia eterna predestinazione, e in avanti alla mia certa glorificazione”. Con tutto questo concorda frequentemente l’immediata testimonianza dello Spirito Divino, che testimonia con la coscienza del credente che egli è un figlio di Dio (Rom. 8.16; Gal. 4.6; 1 Gv. 5.10). Cristo incoraggia il Suo piccolo gregge a non temere, in quanto essi, sulla base di un buono e solido terreno, possono confidare soddisfatti e sicuri nell’inalterabile “beneplacito del Padre di dare loro il regno” (Luca 12.32). E questa era la fede degli apostoli (Rom. 8.38,39).

PUNTO 8.– Il vero credente non solo dovrebbe essere ben sicuro della propria elezione, ma dovrebbe anche credere nell’elezione di tutti gli altri credenti e suoi fratelli in Cristo. Ora, dal momento che vi sono evidentissimi e indubbi segni distintivi dell’elezione esposto nella Scrittura, un figlio di Dio, esaminando sé stesso nella ricerca di tali segni distintivi, può giungere alla seria e fondata certezza della propria particolare partecipazione a quell’ineffabile privilegio; e con la stessa regola con cui giudica sé stesso può similmente (ma con cautela) giudicare gli altri. Se vedo i frutti esteriori e i criteri dell’elezione in questo o quell’altro uomo, io posso ragionevolmente, e con un giudizio di carità, concludere che un tale uomo è una persona eletta. Così Paolo, osservando i graziosi frutti che apparivano nei credenti Tessalonicesi, concluse da ciò che essi erano eletti di Dio (1 Tes. 1.4,5) e conosceva anche l’elezione dei Cristiani Efesini (Efe. 1.4,5), come anche Pietro conosceva quella dei membri delle chiese nel Ponto, nella Galazia, ecc. (1 Pie. 1.2). È indubbiamente vero che non tutti i giudizi di questo genere sono infallibili, ma i nostri giudizi sono soggetti all’errore, e solo Dio, a cui appartiene il libro della vita ed è il Conoscitore dei cuori, può conoscere in modo assoluto coloro che sono Suoi (2 Tim. 2.19); tuttavia noi possiamo, senza un’intrusione presuntuosa nelle cose invisibili, giungere ad una certezza morale in questa materia. E non vedo come l’amore Cristiano possa essere coltivato, come possiamo chiamarci l’un l’altro fratelli nel Signore, e come i credenti possano avere amicizia e comunione religiosa reciproca, se non hanno una qualche ragione solida e visibile per concludere che essi sono amati con il medesimo amore eterno, che furono redenti dal medesimo Salvatore, che sono partecipi della stessa grazia e che regneranno nella stessa gloria.

Ma lasciatemi qui suggerire una cautela necessaria, ovvero, che sebbene noi possiamo, almeno con molta probabilità, dedurre l’elezione di certe persone dai segni distintivi e dalle manifestazioni della grazia che potrebbero essere visibili in loro, tuttavia noi non possiamo mai giudicare alcun uomo come reprobo. Che esistano persone riprovate è ben evidente dalla Scrittura (come mostreremo a breve), ma chi esse siano è noto a Lui soltanto, il quale è l’unico a poter dire chi e quali uomini non sono scritti nel libro della vita dell’Agnello. Ammetto che vi siano alcune persone particolari menzionate nella Parola Divina della cui riprovazione non si può dubitare, come Esaù e Giuda; ma ora che il canone della Scrittura è completo, non dobbiamo osare, non dobbiamo giudicare alcun uomo in vita come un non eletto, per quanto malvagio egli possa essere al presente. Il più vile dei peccatori può, per quanto possiamo sapere, appartenere all’elezione della grazia, e ricevere un giorno l’opera dello Spirito di Dio. Questo sappiamo, che coloro che muoiono nella mancanza di fede e non sono alla fine santificati non possono essere salvati, perché Dio nella Sua Parola ci insegna così, e ha esposto questi come segni distintivi della riprovazione; ma dire che tali e tali individui, che forse noi vediamo come morti nei loro peccati, non saranno mai convertiti a Cristo, sarebbe l’affermazione più presuntuosa, così come un inescusabile oltraggio alla carità che spera ogni cosa.


[1] Prædest. cap. 17 [2] De Corrept. et Grat. cap. 7 [3] Tom. 7, De Corrept. et Grat. cap. 7. [4] In Præfat. ad Epist. ad Rom. [5] Si osservi attentamente che quando insieme alla Scrittura noi affermiamo che la gloria di Dio è il fine ultimo di tutte le sue opere verso gli angeli e gli uomini, non diciamo questo in relazione alla Sua gloria essenziale che Egli ha come Dio, e che, in quanto infinita, non è suscettibile di aggiunte né capace di diminuzione, ma di quella gloria che è puramente manifestativa, e che Micrælius, nel suo Lexic. Philosoph. col. 471, definisce Clara rei cum laude notitia; cum nempe, ipsa sua eminentia est magna, augusta, et conspicua. E il preciso Maestricht, Celebratio ceu manifestatio (quæ magis proprie glorificatio, quam gloria appellatur), qua, agnita intus eminentia, ejusque congrua æstimatio, propalatur et extollitur.—Theolog. lib. 2, cap. 22 § 8.

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