Ciò che esiste appare

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== Materiale fornito dal docente: ==


== dalla critica agli strumenti all’apparire delle cose ==


Prof. Claudio Tognonato


Ci siamo interrogati sulla razionalità e siamo arrivati a differenziare la razionalità in quanto: facoltà costruzione, creazione

La razionalità, per non essere una facoltà astratta, deve avere un luogo nella società, uno spazio, deve essere vissuta, deve “esistere”. A noi interessa la razionalità in quanto realizzazione umana, in quanto costruzione, in quanto schema di riferimento della sfera pubblica. Non analizzeremo la facoltà di ragionare, in quanto tale, ma le conseguenze, il risultato che crea questa facoltà. Come operatori sociali a noi riguarda ciò che “si pensa”. E qui troviamo la diversità, ci sono diversi modi di pensare, diverse logiche perché ci sono diverse culture e diversi modi di vedere il mondo.

Questa molteplicità è in contrasto con una razionalità economica? È in contrasto, per esempio, con la legge di mercato, con questa regola universale che si pone come tribunale supremo, imparziale e a-ideologico dei fatti umani?

Se la razionalità è un modo per capire la realtà oggi questo strumento è manipolato dall’interesse economico. La razionalità economica prevale su ogni forma di pensiero, il perseguimento dell’utile, del guadagno, la ricerca del proprio beneficio prevale sulla ricerca della verità. Così la razionalità da “strumento” diventa “strumentale”, prevale sulla finalità che si persegue, il mezzo prevale sul fine, l’oggetto sul soggetto.

Il percorso introduttivo delle prime lezioni ha aperto una serie di problematiche intorno alla razionalità che sono confluite nella nozione di realtà umana. Ci siamo chiesti se la realtà è un fenomeno, un fenomeno sociale.

Ma anche affermando che la realtà è un fenomeno sociale, ci siamo resi conto di non avere risolto, ma solo rimandato il problema. Non sappiamo cosa comporta affermare che la realtà è un fenomeno sociale. Durkheim diceva che la sociologia si doveva occupare dei “fatti sociali”, benissimo, non più analisi astratte ma concreti fatti. Ma guardando da vicino questa concretezza, ci siamo chiesti cosa sono i fatti? Per Durkheim la sociologia deve trattare i fatti come se fossero cose, ma è scientificamente lecito prendere i fatti per ciò che non sono?

Vogliamo capire la realtà che ci accomuna, questa situazione in cui siamo gettati, ma scopriamo che non è così semplice perché essa è data e creata. Allora, è forse possibile differenziare ciò che è dato da ciò che è creato? È possibile differenziare la realtà, come costruzione umana, dal reale, quel sostrato concreto che è la base della costruzione sociale?

La realtà appare, si manifesta, si rende evidente. Dobbiamo andare alle origini e analizzare l’apparire delle cose, l’osservazione, la percezione, il punto di vista. Tutto ciò che appare esiste. Ciò che appare diciamo che “è” perché appare, non abbiamo dubbi. Ma ciò che appare esiste se qualcuno testimonia la sua presenza, altrimenti? Se non c’è un osservatore, la cosa osservata termina di esistere nella realtà umana?

Per trovare una risposta occorre però fare un articolato camino a ritroso ed entrare nelle tematiche del libro “Il corpo del sociale. La prospettiva del nostro analisi sarà prevalentemente fenomenologica esistenziale vicina al pensiero di Jean-Paul Sartre e quindi si pone come tensione verso il concreto e in opposizione al pensiero astratto. Questa ottica, che unisce filosofia e sociologia, proporrà anche alla fine un metodo di analisi, un approccio qualitativo.

Siamo ora in grado di annunciare il percorso:

1. Apparenza ed essenza. Individuo e società. 2. L’apparire dell’Altro. 3. Osservare, percepire, immaginare. 4. L’agire, la scelta. 5. Chi è il responsabile? La responsabilità diffusa. 6. La libertà è in situazione. 7. L’esistenza del Due 8. Reale – Realtà 9. Pratico inerte 10. Come conoscere? L’approccio metodologico



Conoscere è modificare

La ricerca sociologica non è mai innocente. Per lo più, si può dire che l’elaborazione di una domanda è preceduta dalle possibili risposte e non viceversa. In questo senso il lavoro del sociologo deve avere alla base un impegno di auto-consapevolezza del proprio punto di vista. Si dice che il vero ricercatore è un ricercato perché chi non è in grado di capire l’intenzionalità con cui s’avvia verso la ricerca non sarà mai in grado di riconoscere le differenze tra le proprie proiezioni e l’oggetto d’analisi.


Come ha sostenuto Alfred Schutz, osservare è innanzitutto un’attività e ogni attività modifica, perché ogni agire è un agire su qualcosa. Questa affermazione indica che percepire non è registrare su una tabula rasa. Anzi, si può dire che osservare è trasformare in due diversi modi:

a) quando l’osservazione modifica senza alterare, la cosa può acquistare nuovi significati, può cambiare la sua collocazione all’interno del nostro universo, si possono scoprire nuovi profili anche se l’oggetto in sé resta identico. In breve, la cosa si mantiene inalterata ma l’osservatore modifica il suo punto di vista su di essa; e

b) quando a cambiare non è il soggetto che osserva ma l’oggetto di percezione. Se l’osservato è un altro soggetto, lo sguardo provoca delle conseguenze sul suo oggetto. Sotto la presenza di un osservatore il soggetto si costituisce come oggetto di osservazione e il suo agire sarà un agire “disturbato” da questa presenza.

È qui anche opportuno citare un esperimento, divenuto un classico della sociologia, compiuto da Elton Mayo nella Western Electric Company nel 1924. Mayo dimostrò, senza per altro volerlo che, per incrementare la produzione più che migliorare le condizioni oggettive di lavoro, è importante agire sui rapporti sociali. La produttività migliorava non tanto perché le condizioni di lavoro fossero mutate, ma perché gli operai erano a conoscenza che su di loro si stava facendo uno studio, sapevano del fatto di essere sotto osservazione. In entrambi i casi la percezione “disturba”, cioè, osservare significa mutare l’osservato.

In sociologia si parla di osservazione e di osservazione partecipante. Una differenza di tecniche che più che al risultato prodotto mira all’intenzione del ricercatore. Chi compie questa distinzione deve essere consapevole che si tratta di un’espressione di desideri e che non può mai esserci un’osservazione non partecipante.


Olhares do morro


Una recente ricerca condotta a Rio de Janeiro, nelle favelas del Brasile, illustra molto bene ciò che significa osservare ed i problemi a cui è sottoposta l’osservazione, quando è riflessiva. Fotografare situazioni estreme, fare reportage di luoghi o episodi dove gli esseri umani sono messi duramente alla prova è un classico per un certo tipo di fotografia impegnata. Si fotografa la guerra, la miseria e, nel nostro caso, una baraccopoli che sorge a Rio. Nei morros, in quelle coline lussureggianti che caratterizzano la città, ci sono anche le favelas, luogo di violenza, di traffico di droga, di malavita, di squadroni della morte, ma anche luogo di un’immensa umanità sofferente e abbandonata a se stessa, luogo d’indigenza, di povertà estrema, di case di cartone senza luce né acqua, di un esercito di bambini senza famiglia ormai noti in tutto il mondo come meninos da rua, i bambini della strada, ragazzini spesso vittime di ogni sopruso.


Secondo l’Istituto brasiliano di statistica (Ibge) il traffico di droga è la principale fonte di lavoro per i giovani tra gli 11 e i 18 anni. Questo mercato, insieme al commercio internazionale delle armi, genera vere e proprie guerre tra i diversi gruppi per il controllo del territorio. Il saldo di questi scontri supera ormai i 30 mila morti l’anno. La vita non conta molto in un paese in cui un terzo della popolazione vive con un dollaro al giorno. Il fotografo francese Vincent Rosemblatt iniziò a frequentare la favela, accompagnato da qualche abitante. Voleva raccogliere immagini che raccontassero la vita quotidiana, la vera identità della favela. Subito si rese conto che le immagini che aveva della baraccopoli erano sempre violente, di grande crudeltà e sofferenza e si domandò come mai non si raffigurasse la vita normale di ogni giorno, gli elementi positivi. Decise di osservare in modo diverso il fenomeno e, nel 2002, mise in piedi il progetto Olhares do morro nella favela Santa Maria di Rio. Voleva una nuova visione di questi insediamenti e, per fare ciò, cominciò a dare apparecchi fotografici usa e getta ad alcuni ragazzi del posto interessati a fotografare, lasciandoli liberi di riprendere ciò che volevano. Il progetto prese corpo e si sviluppo, ora è una ONG, una vera e propria agenzia fotografica specializzata nelle favelas, che espone le sue fotografie in tutto il mondo. L’esito di questa impresa fu la vera sorpresa. Le prime macchine usa e getta sono state sostituite da camere vere e proprie. Oltre alla qualità delle fotografie, esse sono totalmente diverse da quelle scattate dall’esterno. Sono immagini di normalità, di vita quotidiana, di situazioni di intimità, di gente al lavoro, di bambini che giocano ecc. Non ci sono fotografie che ritraggono la miseria, che vogliono colpire la nostra sensibilità, non trasmettono pietismo, ma nemmeno una visione idilliaca o buonista. Questa vera e propria ricerca sul campo ha fornito un risultato ambivalente: i ragazzi partecipanti al progetto Olhares do morro dicono che quella è la vera favela, che la loro è la realtà naturale. Per noi, che osserviamo dall’esterno, questa “normalità” appare del tutto “anormale”, anche se ci rendiamo conto che si tratta di un esperimento che riesce a spostare uno stereotipo. Per chi abita in una favela, anche se riesce ad avere un titolo di studio, trovare un lavoro è un’impresa difficile. Grava sempre su di lui il sospetto che abbia a che fare con la malavita. Questo è lo stereotipo e questa è la conseguenza di un’osservazione esterna del fenomeno. Dunque, due punti di vista, due realtà diverse ed una prevedibile domanda: qual è la vera favela?


Nelle prime pagine de L’essere e il nulla Sartre dice: “non possiamo dire nulla sull’essere senza consultare il fenomeno d’essere” . L’indicazione di Sartre non è molto diversa da quella sostenuta dalla sociologia. Osservare il fenomeno, “consultare” il fenomeno, con quella particolare cura del linguaggio che è propria di Sartre, indica che dobbiamo dare la parola all’oggetto, chiedergli, porre delle domande, per poi elaborare il nostro parere. Perché bisogna sempre ricordare che chi consulta è colui che guida il gioco, chi consulta è il soggetto attivo, colui che decide, colui che dirà come stanno le cose. Anche nella consapevolezza di questo condizionamento, il materiale raccolto sarà il punto di partenza, sia per la sociologia, in quanto “osservazione concettualmente orientata”, sia per la filosofia esistenziale. Senza il fenomeno, nulla si può dire dell’essere, senza il fenomeno l’essere resterebbe senza voce. Anzi, senza il fenomeno, l’essere non avrebbe nemmeno esistenza.


Osservare un fenomeno significa concentrarsi sulla percezione attraverso una serie di passi interconnessi tra cui possiamo distinguere: l’individuazione, il riconoscimento, l’interrogazione, l’interiorizzazione, l’interpretazione e la negazione. L’oggetto è separato e disgiunto dal suo contesto, riconosciuto come avente senso (o sconosciuto in un contesto di senso), interrogato attraverso il filtro delle concordanze/discordanze, interiorizzato come oggetto di coscienza, interpretato alla luce del proprio punto di vista e negato nell’affermarlo come oggetto relativo di senso.

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