Il Decalogo, Patto d’Opere o Patto di Grazia

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Il Decalogo: Patto d’Opere o Patto di Grazia?


di Hermann Witsius (1636-1708)

Tratto da L’Economia dei Patti tra Dio e L’uomo (1677), libro IV.


Ora, riguardo a questo patto, stabilito sui dieci comandamenti, si chiede se fosse un patto d’opere, o un patto di grazia? Noi riteniamo appropriato premettere alcune cose, prima di rispondere alla questione. Primo, osserviamo che, nel Ministero di Mosé, vi era una ripetizione riguardante la legge del patto d’opere. Perché sono insegnati i medesimi precetti su cui era fondato il patto d’opere, e che costituivano la condizione di quel patto; e quella frase è ripetuta, “le quali chiunque metterà in opera vivrà per esse”, Lev. 18.5, Eze. 20.11, 13, formula con cui la rettitudine, che è della legge, viene descritta in Rom. 10.5. E il terrore del patto d’opere è accresciuto delle ripetute minacce divine; e quella voce disse, “Maledetto sia chi non avrà attenute le parole di questa Legge, per metterle in opera,” Deu. 27.26. Ora l’Apostolo dichiara che questa è la maledizione della legge, poiché la legge è opposta alla fede, o patto di grazia, Gal. 3.10, 12. Come i requisiti dell’obbedienza erano rigidi sotto il ministero di Mosé, le promesse della grazia spirituale e salvifica erano più rare e oscure, la misura dello Spirito concessa agli Israeliti piccola e limitata, Deu. 29.4, e al contrario, la dichiarazione pubblica della maledizione frequente ed esplicita; quindi il ministero di Mosé è chiamato “il ministero della morte e della condanna,” 2 Cor. 3.7, 9, indubbiamente perché è menzionata la condanna del peccatore, e obbligava gli Israeliti a seguirlo.

Secondo, rimarchiamo in modo particolare che, quando la legge fu data dal monte Sinai o Horeb, vi fu una ripetizione del patto d’opere. Infatti, quei tremendi segni di tuoni e lampi, del terremoto, del denso fumo e la nera oscurità, erano adatti a colpire Israele con grande terrore. E il porre i confini e i limiti intorno al monte, con i quali gli Israeliti erano tenuti a distanza dalla presenza di Dio, fu un modo per rimproverarli per quella separazione che il peccato aveva creato tra Dio e loro. In una parola, “Tutto ciò che leggiamo,” in Eso. 19 (dice Calvino su Ebr. 12.10) “è inteso ad informare il popolo che Dio è asceso al suo tribunale, e si è manifestato come un giudice imparziale. Se si fosse avvicinato un animale innocente, per Suo comando avrebbe dovuto essere colpito con una freccia; quanto più severa era la punizione a cui erano soggetti i peccatori, che erano consci dei propri peccati e sapevano di essere descritti dalla legge come colpevoli di morte eterna.” Confrontate lo stesso autore su Eso. 19.1, 16. E l’Apostolo su questo argomento, in Ebr. 12.18-22, pone il monte Sinai in contrasto al monte Sion, e i terrori della legge alla dolcezza del vangelo.

Terzo, Non dobbiamo tuttavia pensare che fosse ripetuta la dottrina del patto d’opere, per stabilire nuovamente con gli Israeliti un tale patto in cui essi avrebbero dovuto ricercare la rettitudine e la salvezza. Infatti, abbiamo già dimostrato (Libro I, cap. ix, sez. 20) che questo non poteva essere rinnovato in quella maniera con un peccatore, in virtù della giustizia e della verità di Dio, e della natura del patto d’opere che non ammette alcun perdono del peccato. Così pure Hornbeck in Theol. Pract. tom. 2. pag. 10. Inoltre, se agli Israeliti fosse stato insegnato a ricercare la salvezza per le opere della legge, allora la legge sarebbe stata contraria alla promessa fatta ai padri molto tempo prima. Ma ora dice l’Apostolo in Gal. 3.17, il patto che fu confermato prima da Dio in Cristo, “la legge, venuta quattrocentrent’anni appresso, non annulla il patto fermato prima da Dio in Cristo, per ridurre al niente la promessa.” Agli Israeliti, quindi, fu presentato il patto d’opere per convincerli del loro peccato e della loro miseria, per guidarli fuori da se stessi, e per mostrare la necessità di una soddisfazione, e per spingerli a Cristo. E così, l’averli condotti a ricordare il patto d’opere tendeva a promuovere il patto di grazia.

Quarto, insieme a questa trasmissione della legge vi erano pure alcune cose concernenti il patto di grazia. Infatti, che Dio proponesse un patto d’amicizia all’uomo peccatore, chiamasse se stesso il suo Dio (almeno nel senso in cui fu detto degli eletti d’Israele), prendesse per sé un popolo separato dagli altri come suo tesoro particolare, assegnasse loro la terra di Canaan come pegno del cielo, promettesse la sua grazia a quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti, e circoscrivesse entro certi limiti la punizione minacciata contro coloro che lo disprezzano, e simili; queste cose svelano chiaramente un patto di grazia, e senza supporre la garanzia del Messia, esso non poteva essere proposto all’uomo peccatore, coerentemente con la giustizia e la verità divine. Saggiamente Calvino dice su Eso. 19.17, “con queste parole ci viene insegnato che questi prodigi o segni non furono dati per condurre il popolo lontano dalla presenza di Dio; né il loro terrore doveva esasperare le loro menti con un odio per le istruzioni; ma che il patto di Dio era non meno pieno d’amore che di terrore. Infatti, viene loro comandato di andare ad incontrare Dio, di presentarsi con sentimenti d’animo pronti ad obbedirgli. Questo non poteva essere possibile se essi non avessero udito qualcos’altro nella legge oltre ai precetti e alle minacce.” Confrontate anche Tileno Syntagm, p. 1. Disp. 33. Sezione 18, 19, 20, 28, 29.

Avendo premesso queste osservazioni, rispondo alla domanda. Il patto stabilito con Israele sul monte Sinai non era formalmente il patto d’opere. 1) Perché quello non può essere rinnovato con il peccatore, nel senso di dire, se in futuro tu eseguirai perfettamente ogni condizione d’obbedienza, tu ne sarai giustificato, secondo il patto d’opere. Infatti, con questo dovrebbe essere presupposto il perdono dei peccati precedenti, che però il patto d’opere esclude. 2) Perché Dio non richiese la perfetta obbedienza ad Israele, come una condizione di questo patto, come un motivo per reclamare il premio; ma la sincera obbedienza, come dimostrazione di riverenza e gratitudine. 3) Perché esso non concluse Israele sotto la maledizione, nel senso peculiare del patto d’opere, dove ogni speranza di perdono era recisa se essi avessero peccato anche in minima misura.

Tuttavia gli Israeliti carnali, non riferendosi al proposito o all’intenzione di Dio, come avrebbero dovuto, fraintesero il vero significato di quel patto, lo accolsero come un patto d’opere, e per mezzo di esso cercarono la rettitudine. Paolo lo dichiara in Rom. 9.31, 32, “Ma che Israele, che procacciava la legge della giustizia non è pervenuto alla legge della giustizia. Perché? perciocchè egli non l’ha procacciata per la fede, ma come per le opere della legge; perciocchè si sono intoppati nella pietra dell’intoppo.” Allo stesso scopo egli paragona, in Gal. 4.25, 25, gli Israeliti agli Ismaeliti, mentre si attardavano nei deserti dell’Arabia, che era il paese dei secondi, che nascono nella schiavitù di loro madre Agar, o del patto del monte Sinai, ed essendo privati della vera rettitudine, essi, con Ismaele, saranno fatti uscire dalla casa del loro Padre celeste. Infatti, in quel passo, Paolo non considera il patto del monte Sinai come se fosse da sé, e nell’intenzione di Dio, offerto agli eletti, ma come abusato da uomini carnali e ipocriti. Lasciamo parlare nuovamente Calvino: “L’apostolo dichiara che, con i figli del Sinai, egli intendeva gli ipocriti, le persone che alla fine sono gettate fuori dalla chiesa di Dio e diseredate. Cos’è dunque quella generazione in schiavitù, di cui egli parla qui? È indubbiamente composta da quelli che in modo ignobile abusano della legge, e non concepiscono nulla a suo riguardo che non sia servile. I padri pii che vissero sotto l’Antico Testamento non fecero così. Perché, la generazione servile della legge si sollevò per impedire loro di avere la Gerusalemme spirituale come loro madre. Ma essi, che si attenevano alla nuda legge, e non ne riconoscevano il valore istruttivo con il quale essi erano condotti a Cristo, ma piuttosto la rendevano un ostacolo alla loro venuta a lui, questi sono gli Ismaeliti (perché così, e penso giustamente, lo legge Morlorat), nati in schiavitù.” L’intento dell’Apostolo dunque, in quel passo, non è di insegnarci che il patto del monte Sinai non era altro che un patto d’opere, completamente opposto al patto del vangelo, ma solo che i grossolani Israeliti fraintesero il pensiero di Dio, e abusarono in modo ignobile del suo patto; e così fanno tutti quelli che ricercano la rettitudine per mezzo della legge. Confrontate ancora Calvino su Rom. 10.4.

D’altra parte esso non era neppure formalmente un patto di grazia, perché quello richiede non solo l’obbedienza, ma anche le promesse, e conferisce la forza di obbedirvi. Infatti, in questo modo è reso noto il patto di grazia, in Ger. 32.39, 41, “E darò loro uno stesso cuore, ed una stessa via, per temermi in perpetuo.” Ma una tale promessa non compare nel patto stabilito sul monte Sinai. Dio, su questa base, distingue il nuovo patto di grazia da quello Sinaitico, Ger. 31.31-33. E Mosé proclama a gran voce, in Deu. 29.4, “Or il Signore, infino a questo giorno, non vi ha dato cuor da conoscere, nè occhi da vedere, nè orecchi da intendere.” Certamente, gli eletti fra Israele hanno ottenuto questo. Tuttavia non in virtù di questo patto, che prescriveva l’obbedienza, ma non conferiva alcuna forza per essa, ma in virtù del patto di grazia, che apparteneva anche a loro.

Che cos’era dunque? Era un patto nazionale tra Dio e Israele, con cui Israele promise a Dio la sincera obbedienza a tutti i suoi precetti, specialmente alle dieci parole; Dio, d’altra parte, promise ad Israele che una tale obbedienza gli sarebbe stata gradita, né sarebbe mancato il suo premio in questa vita e in quella futura, sia nell’anima che nel corpo. Questa promessa reciproca presupponeva un patto di grazia. Infatti, senza l’assistenza del Patto di Grazia, l’uomo non può sinceramente promettere una tale obbedienza, e anche che una tale imperfetta obbedienza possa essere gradita a Dio è completamente dovuto al patto di grazia. Presupponeva anche la dottrina del patto d’opere, il cui terrore era accresciuto da quei tremendi segni che lo accompagnavano, in modo che essi fossero indotti ad accogliere il patto di Dio. Questo accordo quindi è conseguente sia al patto di grazia che a quello d’opere, ma formalmente non fu né l’uno né l’altro. Un simile accordo e rinnovo del patto tra Dio e gli uomini pii è frequente, sia nazionale che individuale. Il primo lo vediamo in Giusué 24.22, 2 Cron. 15.12, 2 Re 23.3, Neh. 10.29. Il secondo in Sal. 119.106. È certo che nei passi che abbiamo nominato, si faccia menzione di un qualche patto tra Dio e il suo popolo. Se qualcuno me lo chiedesse, di che genere, se d’opere o di grazia, io risponderei, formalmente di nessuno dei due, ma un patto di sincera pietà, che presuppone entrambi.

Dunque la domanda, che è molto dibattuta ai giorni nostri, può essere risolta: ovvero, Se i dieci comandamenti non siano altro che una forma del patto di grazia? Questo, io penso, non è affatto una maniera accurata di parlare. Infatti, poiché un patto inteso in senso stretto consiste in un mutuo accordo, quella che è propriamente la forma del patto dovrebbe contenere un tale mutuo accordo. Ma le dieci parole contengono solo una prescrizione dei doveri circoscritti da una parte da minacce, tratte dal patto d’opere; dall’altra, da promesse, che appartengono al patto di grazia. Quindi la Scrittura, quando parla propriamente, dice che un patto fu stabilito sopra queste dieci parole, o sul senso di quelle parole, Eso. 34.27, distinguendo il patto stesso, che consiste in un mutuo accordo, dalle dieci parole, che ne contengono le condizioni. La forma del patto viene mostrata con quelle parole che abbiamo già citato da Eso. 19.5, 6, 8. Non nego che i dieci comandamenti siano frequentemente chiamati nella Scrittura il patto di Dio. Ma allo stesso tempo, nessuno può ignorare che il termine patto ha diversi significati in Ebrei, e spesso non significa altro che un precetto, come in Ger. 34.18. Così Mosé si esprime su questo punto, Deu. 4.13, “Ed egli vi dichiarò il suo patto, ch’egli vi comandò di mettere in opera; le dieci parole ch’egli scrisse in su due Tavole di pietra.” Esse sono dunque chiamate un patto con una sineddoche, perché contengono quei precetti che Dio, quando pose il suo patto innanzi a loro, richiese che gli Israeliti osservassero, e a cui quegli Israeliti si vincolarono per un patto.

Le dieci parole, o comandamenti, dunque, non sono la forma di un patto propriamente detto, ma la regola del dovere, e tanto meno esse sono la forma del patto di grazia, perché il patto, nel suo senso stretto, consiste di pure promesse e, poiché si riferisce alle persone elette, ha la natura di un testamento, o ultime volontà, piuttosto che di un patto in senso stretto, e non dipende da alcuna condizione, come abbiamo ampiamente spiegato e dimostrato nel Libro III, cap. i, sez. 8 e segg. E Geremia ci ha mostrato che la forma del patto di grazia consiste in promesse assolute, cap. 31.33 e 32.38-40. In modo simile, anche Isaia 54.10.

Men che mai si può dire che le dieci parole non fossero altro che la forma del patto di grazia, perché possiamo guardare ad esse come se avessero un riferimento a qualunque patto. Esse possono essere considerate in una duplice maniera. 1. Precisamente, come una legge. 2. Come uno strumento del patto. Come legge, esse sono la regola della nostra natura e delle nostre azioni, che ha prescritto Colui che ha il diritto di comandare. Questo furono fin dal principio, questo sono tuttora, e questo continueranno ad essere, sotto qualunque patto, o in qualunque condizione in cui si trovi l’uomo. Come uno strumento del patto esse indicano la via all’eterna salvezza; o contengono la condizione per godere di quella salvezza, e ciò sia sotto il patto di grazia che sotto quello d’opere. Ma con questa differenza, che sotto il patto d’opere questa condizione è richiesta per essere osservata dall’uomo stesso; sotto il patto di grazia essa è proposta, come già osservata, o da essere osservata da un mediatore.

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