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Capitolo 14
Il ravvedimento e la conversione
L’Evangelo presenta la dottrina del ravvedimento insieme a quella della fede[1]. Nell’Evangelo, infatti, il Signore dice: “Nel Suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti” (Lu. 24:47). Che cos’è il ravvedimento? Per ravvedimento noi comprendiamo: (1) Il rinsavimento[2] dell’uomo peccatore, risvegliato dalla Parola dell’Evangelo e dallo Spirito Santo, ricevuto con vera fede, mediante il quale il peccatore prontamente riconosce la propria innata corruzione e tutti i peccati di cui la Parola di Dio lo accusa[3]; (2) per essi sente nel suo cuore una grande tristezza e se ne dispiace a ragion veduta e non solo sinceramente li deplora davanti a Dio confessandoli con vergogna, ma (3) li detesta [li maledice] anche con grande rammarico, riflettendo e sforzandosi [usando costantemente ogni diligenza e sforzo] di emendarsi e di dedicarsi coscienziosamente ad una stabile innocenza e virtù, esercitandosi in essa per tutto il resto della sua vita.
Il vero ravvedimento è conversione a Dio. Ecco dunque in che cosa consiste il vero ravvedimento: in una sincera e pura conversione a Dio e ad ogni bene, e, in negativo, un voltare le spalle al diavolo e da ogni forma di male. 1. Il ravvedimento è un dono di Dio. Noi diciamo espressamente, però, che questo ravvedimento è un puro dono di Dio [un puro dono e grazia di Dio] e non un’azione derivante dalle nostre forze. L’Apostolo ordina infatti che il fedele ministro istruisca diligentemente coloro che resistono alla verità [quelli che sono disposti in contrario], per vedere [per provare] di far si che ad un certo momento Dio dia loro il ravvedimento per conoscere la verità (2 Ti. 2:25). 2. Deplora i peccati commessi. Del resto, la peccatrice di cui parlano i vangeli, che bagnò con le sue lacrime i piedi del Signore, e Pietro, che pianse amaramente il rinnegamento del Suo maestro, ci mostrano chiaramente quale debba essere il cuore di colui che si pente, cioè che egli, con serietà, deplori e pianga i peccati commessi (Lu. 7:38; 22:62). Inoltre il figliol prodigo ed il pubblicano paragonato con il Fariseo, di cui si parla nei vangeli (Lu. 15:18ss; 18:13), ci mostrano una forma ed un modo molto appropriati per confessare i nostri peccati a Dio. 3. Confessa a Dio i peccati. Ora, il figliol prodigo diceva: “Io mi alzerò ed andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi servi” (Lu. 15:18), e il pubblicano “non osava neppure alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto, dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Mt. 18:13). Ora noi non dubitiamo affatto che Dio non li abbia accolti in grazia. L’Apostolo Giovanni ci dice infatti: “Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i nostri peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo, e la sua parola non è in noi” (1 Gv. 1:9,10).
La confessione sacerdotale e l’assoluzione. Crediamo che la confessione seria e legittima [questa libera e sincera confessione], fatta solo a Dio, o in privato, fra Dio e il peccatore, o pubblicamente al tempio [in pubblico nella chiesa], dove si fa confessione generale dei peccati, sia sufficiente, e che non sia affatto necessario per ottenere la remissione dei peccati di confessarsi ad un prete [al sacerdote], mormorando [bisbigliando o barbottando] i peccati alle sue orecchie in modo da averne l’assoluzione per l’imposizione delle sue mani. Nelle Sacre Scritture, infatti, non si trova alcun comandamento [precetto] o esempio di una tale confessione. Davide attesta di avere confessato il suo peccato a Dio e di non avergli affatto nascosto la sua iniquità. Ma dice: “Davanti a Te ho ammesso il mio peccato, non ho taciuto la mia iniquità. Ho setto: Confesserò le mie trasgressioni al Signore, e tu hai perdonato l’iniquità del mio peccato” (Sl. 32:5). Anche quando il Signore ci ha insegnato a pregare ed a confessare i nostri peccati, ha detto: “rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori” (Mt. 6:12). E’ quindi necessario che confessiamo i nostri peccati a Dio nostro Padre [celeste] e che ritorniamo in grazia con il nostro prossimo se lo abbiamo offeso. Di questo modo di confessarsi parla l’apostolo Giacomo, nella sua lettera canonica, dicendo: “Confessate i vostri peccati, dunque, gli uni agli altri, affinché siate guariti; la preghiera del giusto ha una grande efficacia” (Gm. 5:16). Inoltre troviamo che sia buona cosa se qualcuno, oppresso dal fardello dei suoi peccati e da grandi e pericolose tentazioni, cerca consiglio, istruzione e consolazione particolare, o presso il ministro della chiesa o presso qualcuno dei suoi fratelli istruiti nella legge di Dio [nella Parola di Dio ben ammaestrati]. Così pure approviamo senza riserve la confessione generale e pubblica dei peccati che si fa al tempio [nella chiesa] nelle sacre assemblee di cui abbiamo parlato sopra.
Le chiavi del regno dei cieli. Per quanto riguarda le chiavi del regno di Dio date dal Signore agli apostoli, vi sono molti che ne dicono a piacimento cose strane, fino a trasformare queste chiavi in spade, lance, scettri e corone, con pieni poteri non solo sui grandi regni, ma addirittura sulle anime e sui corpi. Ma, da parte nostra, noi consideriamo queste cose unicamente [semplicemente] secondo la Parola del Signore e diciamo che tutti i ministri legittimamente chiamati possiedono o esercitano le chiavi ed il loro uso, quando annunciano l’Evangelo, cioè ogni qual volta ammaestrano il popolo che è stato affidato alle loro cure, lo esortano, lo consolano e lo riprendono e, infine, lo mantengono sotto la disciplina [ecclesiastica]. Aprire e chiudere il Regno. E’ questo infatti il modo in cui aprono il regno dei cieli agli obbedienti e lo chiudono a quanti disubbidiscono. Ora il Signore ha promesso queste chiavi ai Suoi apostoli (Mt. 16:19) e le ha date loro (Gv. 20:23; Mr. 16:15 e Lu. 24:47) quando li manda e ordina loro di predicare l’Evangelo nel mondo intero e di perdonare i peccati. Il ministero della riconciliazione. Anche l’Apostolo, nella lettera ai Corinzi, dice: “Dio ... ci ha affidato il ministero della riconciliazione ... ha messo in noi la parola della riconciliazione” (1 Co. 5:18,19), e poi espone subito dopo in che cosa consiste. Poi, esprimendo ancora più chiaramente il suo pensiero, aggiunge che i ministri di Cristo sono ambasciatori per Cristo, come se Dio stesso, attraverso i Suoi ministri, esortasse i popoli a riconciliarsi con Dio, cioè mediante l’ubbidienza della fede. I ministri esercitano quindi le chiavi quando ci esortano [consigliano o predicano] alla fede ed al ravvedimento, che è anche il mezzo attraverso il quale essi riconciliano con Dio i peccatori, rimettono i peccati ed aprono il regno per introdurvi i credenti. In tutto questo essi si distinguono profondamente da coloro dei quali il Signore dice nel vangelo: “Guai a voi, dottori della legge, perché avete portato via la chiave della scienza! Voi non siete entrati e a quelli che volevano entrare l’avete impedito” (Lu. 11:52). Come i ministri assolvono. I ministri usano quindi l’assoluzione come si deve, quando predicano l’Evangelo di Gesù Cristo e, attraverso di esso, la remissione dei peccati che è promessa a tutti i fedeli che sono anche battezzati; di conseguenza, la remissione dei peccati appartiene particolarmente ad ognuno di loro. Noi non riteniamo perciò che questa assoluzione abbia maggiore efficacia e potere quando viene mormorata all’orecchio e quando si mette la mano sulla testa di colui che si confessa. Diciamo però che si deve diligentemente annunciare la remissione dei peccati mediante il sangue di Gesù Cristo e che si deve ammonire ogni uomo sul fatto che questa remissione gli appartiene.
Diligenza nel rinnovamento della propria vita. Del resto gli esempi evangelici ci insegnano quale diligenza e vigilanza [assiduità] debbono usare, coloro che si pentono, nello studio e nell’esercizio della nuova vita e nell’abolizione [nel far morire] del vecchio uomo e nella creazione [suscitare e destare] del nuovo. Il Signore dice infatti al paralitico che aveva guarito: “Ecco, tu sei guarito; non peccare più che non ti accada di peggio” (Gv. 5:14), ed all’adultera: “Va’, e non peccare più” (Gv. 8:11). Con queste parole non intende dire che l’uomo possa essere senza peccato finché vive in questa carne [giungere tanto avanti], ma attraverso di esse Egli ci raccomanda la vigilanza e una particolare cura, perché ci sforziamo [adoperiamo ogni nostro potere] in tutti i modi e domandiamo a Dio con preghiere, di non ricadere nei peccati dai quali Egli ci ha come risuscitati e rialzati e che non siamo vinti dalla carne, dal mondo e dal diavolo. Zaccheo, il pubblicano, ricevuto in grazia del Signore, esclama nel vangelo: “Ecco, Signore, io dò la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo” (Lu. 19:8). Sul suo esempio, quindi, noi predichiamo [noi predichiamo ed assiduamente inculchiamo] che a coloro che si pentono sono necessarie la restituzione e la misericordia ed anche le elemosine, e esortiamo tutti gli uomini in genere secondo le parole dell’Apostolo e diciamo: “Non regni dunque il peccato nel vostro corpo mortale per ubbidire alle sue concupiscenze; e non prestate le vostre membra al peccato, come strumenti di iniquità; ma presentate voi stessi a Dio, come di morti fatti viventi, e le vostre membra come strumenti di giustizia a Dio” (Ro. 6:12,13).
Errori. Condanniamo perciò tutti i cattivi propositi [favellare empio] di coloro che, abusando della predicazione dell’Evangelo, dicono: “E’ facile ritornare a Dio, Gesù Cristo ha reso soddisfazione [ha espiato] per tutti i peccati. La remissione dei peccati è facile [è senza pena e stento]. In che cosa dunque potrà nuocerci il peccato [la perseveranza nel peccato] e che bisogno abbiamo di penitenza?”, ecc. E tuttavia insegniamo sempre che a tutti i peccatori è aperta la porta per andare a Dio e che, eccetto il peccato contro lo Spirito Santo (Mr. 3:29), Egli perdona tutti i peccati a tutti i credenti (Mt. 3:29). E’ dunque a ragione che condanniamo i novaziani e i catari[4], sia antichi che moderni. Le indulgenze papali. Ma soprattutto condanniamo la dottrina della penitenza papista [l’interessata dottrina del papa] che, dal punto di vista della borsa, è fonte di grandi profitti, e pratichiamo, sia contro la sua simonia che contro le sue indulgenze simoniache, la sentenza di Pietro: “Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai creduto di poter acquistare con denaro il dono di Dio. Tu, in questo, non hai parte né sorte alcuna; perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio” (At. 8:20,21).
Soddisfazioni. Noi non approviamo [noi riproviamo] neppure coloro che credono di potere rendere soddisfazione per i loro peccati da loro stessi con le loro proprie opere. Insegniamo infatti che solo Cristo, attraverso la Sua passione e morte, è stato soddisfazione, propiziazione o espiazione per tutti i peccati (Is. 53), e tuttavia, come abbiamo detto sopra, non cessiamo di spingere [incalzare e sollecitare] ognuno a mortificare [con ogni nostro potere] la propria carne (1 Co. 1:30), aggiungendo comunque che non dobbiamo pretendere orgogliosamente di offrire questo pentimento a Dio come soddisfazione dei nostri peccati, ma che debbasi praticarlo in tutta umiltà, come un frutto convenevole a figli di Dio, i quali sono in obbligo di manifestare una nuova obbedienza e questo in riconoscenza in viva gratitudine] per la redenzione e piena soddisfazione per i nostri peccati, che abbiamo ottenuto attraverso la morte del Figlio di Dio.
[1]Non vi può essere fede senza ravvedimento.
[2]O “resipiscenza”, il ristabilimento di un giusto modo di pensare, di vedere sé stesso, il riconoscimento del fatto d’essere un peccatore.
[3]Quando ci si confronta con la Legge di Dio nelle Scritture si riconosce di non averla osservata come dovuto e di meritare, per questo, la giusta condanna da parte di Dio.
[4]Discepoli di Novaziano, presbitero romano del III secolo, scomunicato per aver sostenuto che la Chiesa doveva liberarsi da coloro che avevano commesso peccati mortali. Catari: setta diffusa nell’Italia settentrionale e nella Francia meridionale nel XII secolo, rifiutavano l’Antico Testamento e molte pratiche della Chiesa.