Giustificazione Forense

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Giustificazione Forense


del Dott. Francesco Turretini (1623-1687)



La parola Giustificazione è sempre usata in un senso forense in questo argomento, oppure anche in uno morale e fisico? Affermiamo la prima, e neghiamo la seconda, contro i Cattolici Romani.

I. Nella catena della salvezza la Giustificazione segue la Chiamata, Rom. 8:30, e ovunque è espressa come l’effetto primario della fede. L’argomento riguardante la Chiamata e la Fede genera l’argomento riguardante la Giustificazione, che deve essere trattato con maggiore cura e precisione poiché questa dottrina salvifica è della massima importanza nella religione. Esso è chiamato da Lutero l’articolo su cui una chiesa rimane salda o cade; da altri Cristiani non senza ragione è definito la caratteristica e la base del Cristianesimo, il principale bastione della religione Cristiana, e se viene corrotto o sovvertito, è impossibile conservare la purezza della dottrina in altre aree. Per cui Satana in ogni epoca ha cercato di corrompere in ogni modo questa dottrina, come è avvenuto in modo particolare nel Papato. Per questa ragione essa è meritatamente collocata fra le cause principali della nostra Secessione dalla Chiesa Romana e della Riforma.

II. Sebbene, tuttavia, alcuni dei Cattolici Romani più candidi, conquistati dalla forza della verità, abbiano compreso e si siano espressi più rettamente di altri riguardo a questo articolo; e sebbene non manchino alcuni fra i nostri teologi che, influenzati dal desiderio di mitigare le controversie, pensano che non sia una materia di disputa tanto importante, e che vi siano in essa non poche logomachie; nondimeno è certo che fino ad oggi tra noi e i Cattolici Romani in questo argomento esistono controversie non verbali, numerose e di grande importanza, come sarà mostrato di seguito.

III. Poiché da una falsa e assurda spiegazione della parola, la verità della cosa stessa è stata oscurata in modo sorprendente, in primo luogo deve essere illustrato il suo significato genuino, in modo speciale in questa questione. Dopo averlo fissato, saremo in grado di raggiungere più facilmente la natura della cosa stessa.

Omonimi del verbo Justificare


IV. Il verbo ebraico tsayke, a cui corrisponde il greco dikaioun, e il latino Justificare, è usato in due modi nella Scrittura, Propriamente e Impropriamente. Propriamente il verbo è forense, usato nel senso di assolvere qualcuno in un processo, o di considerare e dichiarare giusto, in contrasto al verbo condannare e accusare, Eso. 23:7, Deu. 25:1, Pro. 17:15, Lu. 18:14, Rom. 3-5. Da cui, oltre che nel processo, è usato per riconoscere e lodare qualcuno come giusto, ed anche questo, sia meritatamente, come quando è applicato a Dio: in questo modo si dice che gli uomini giustifichino Dio quando lo celebrano come giusto, Sal. 51.4, la Sapienza è detta essere giustificata dai suoi figli, Mat. 11:9, Lu. 7:35, ovvero, riconosciuta e celebrata come tale; sia presuntuosamente, come i Farisei che giustificano sé stessi, Lu. 16:15. Impropriamente esso è usato sia in modo ministeriale, per condurre alla rettitudine, Dan. 12:3, dove mtsdyqy sembra essere esegetico di mskylym, perché mentre i predicatori del vangelo istruiscono ed insegnano ai credenti, in questo stesso modo essi li giustificano ministerialmente nello stesso senso in cui si dice che li salvano, 1 Tim. 4:16. O per mezzo di una sinnedoche, l’antecedente è usato per il conseguente, per liberare, Rom. 5:7, “Colui che è morto è giustificato dal peccato,” ovvero, liberato. O comparativamente, in Eze. 16:51-52, dove sulla base del confronto tra i peccati di Israele e di Samaria, viene detto che Israele giustifica la Samaria, e in Ger. 3:11, aumentando i peccati di Giuda, viene detto che Giuda ha giustificato Israele, perché Israele era più giusta di Giuda, ovvero i suoi peccati erano minori di quelli di Giuda.

Stato della Questione


V. Di conseguenza sorge la questione dei Cattolici Romani, concernente l’interpretazione di questa parola, se essa in questa materia debba essere intesa precisamente in un senso forense; o se essa debba anche essere intesa in un senso fisico e morale come l’infusione di rettitudine e se si possa parlare di Giustificazione, per così dire, per mezzo dell’acquisizione e dell’incremento di quella rettitudine? Perché essi non negano, in verità, che la parola Giustificazione e il verbo justificare siano spesso intesi in senso forense, e anche in questa materia, come Bellarmino nel De Justificatione, cap. 1, Tirino, Theologiae elenchticae, cont. 15.1, Toletus Ad Romanos, anno 13, e molti altri. Ma essi non ritengono che questo sia il significato costante, ma che spesso significhi una vera produzione, acquisizione, o incremento di rettitudine, e questo è in modo particolare il caso quando è impiegato nella giustificazione dell’uomo davanti a Dio. Da cui essi distinguono la Giustificazione in una prima e una seconda. La prima è quella per la quale l’uomo che è ingiusto viene reso giusto, e la seconda è quella per la quale un uomo giusto è reso più giusto. Da cui Bellarmino, lib. ii, cap. 2, “La Giustificazione indubbiamente è un certo movimento dal peccato alla rettitudine, e prende il suo nome dal fine a cui conduce, come tutti i moti simili, l’illuminazione, l’incalorimento; questa è la vera giustificazione, dove qualche rettitudine è acquisita oltre la remissione del peccato.” Tommaso, I-II, d. 113, “La giustificazione considerata passivamente implica un moto a rendere giusto, come l’incalorimento è un moto al calore.” Ora, sebbene noi non neghiamo che questa parola abbia più di un significato, ed è intesa in maniere differenti nelle Scritture, ora propriamente, ora impropriamente, come abbiamo già detto, tuttavia sosteniamo che essa non è mai intesa come l’infusione di rettitudine, ma sempre, come parlano spesso le Scritture esplicitamente riguardo alla nostra giustificazione, deve essere interpretata come un termine forense.

La parola Giustificazione è forense


VI. Le ragioni sono: 1) Perché i passi che trattano della Giustificazione non ammettono alcun altro significato che quello forense, Gb. 9:3, Sal. 143:2, Rom. 3:28 e 4:1-3, Atti 13:39, e altrove, dove è espresso un processo giudiziale, e si fa menzione di una legge che accusa, di persone accusate, che sono colpevoli, Rom. 3:19, di un documento scritto che è contro di noi, Col. 2:14, della giustizia divina che esige la punizione, Rom. 3:24, 26, di un avvocato che perora la causa, 1 Gv. 2:1, di soddisfazione e di rettitudine imputata, Rom. 4 e 5; di un trono di grazia innanzi al quale noi dobbiamo essere assolti, Ebr. 4:16, di un Giudice che pronuncia una sentenza, Rom. 3:20, e di assolvere i peccatori, Rom. 4:5.

VII. 2) Perché la giustificazione qui è opposta alla condanna: “Chi farà accusa contro agli eletti di Dio? Iddio è quel che giustifica. Chi sarà quel che li condanni?” Rom. 8:33. Come dunque l’accusa e la condanna avvengono solo in un processo, così pure la giustificazione. Né si può immaginare come si possa dire che Dio condanni o giustifichi, se non giudicando per la punizione, o assolvendoci da essa giudizialmente, cosa che Toleto è costretto ad ammettere in questo passo: “La parola giustificazione in questo passo è intesa con quel significato che è opposto alla sua antitesi, ovvero, alla condanna, così che in questo passo giustificare è la medesima cosa che pronunciare giusto, come un Giudice che con la sua sentenza assolve e pronuncia innocente.” Cornelio, un Lapide, il quale altrimenti si sforza di oscurare la verità, tuttavia è sopraffatto dalla forza della verità, e riconosce che Dio giustifica, ovvero, assolve l’azione minacciata del peccato e del diavolo, e pronuncia giusto.

VIII. 3) Perché le frasi equivalenti, con cui è descritta la nostra giustificazione, sono non venire in giudizio, Gv. 5:24; non essere condannati, Gv. 3:18; rimettere i peccati, imputare la rettitudine, Rom. 4; essere riconciliati, Rom. 5:10-11, 2 Cor. 5:19; e simili. 4) Questa parola dovrebbe essere usata nel senso in cui fu usata da Paolo nella sua disputa contro i Giudei, ed è certo che in quell’occasione non parlò di un’infusione di rettitudine, ovvero, se la rettitudine dovesse essere infusa nell’uomo dalla fede o dalle opere della legge, ma in che modo il peccatore poteva stare innanzi al giudizio di Dio, e ottenere il diritto alla vita, se per le opere delle legge come immaginavano i Giudei o per la fede in Cristo; e poiché il pensiero riguardante la Giustificazione sorse senza dubbio dalla paura di un giudizio divino e dell’ira futura, esso non può essere usato in nessun altro senso che quello forense, come era usato all’origine di quelle questioni che furono sollevate in un’epoca precedente in occasione delle Indulgenze, delle soddisfazioni e della remissione dei peccati. 5) Infine, se questa parola non fosse intesa in un senso forense, essa sarebbe confusa con la santificazione, e che queste sono distinte è provato frequentemente sia dalla natura della cosa che dalla voce della Scrittura.

Fonti d’Illustrazione


IX. Anche se la parola Giustificazione in certi passaggi della Scrittura dovesse allontanarsi dal suo significato proprio, e fosse intesa in un altro senso rispetto a quello forense, non ne seguirebbe comunque che noi la interpretiamo in modo errato, perché il senso appropriato deve essere guardato in quei passi dove risiede questa dottrina. 2) Anche se non dovesse essere intesa precisamente in un senso forense, come per pronunciare giusto e assolvere in un processo, nondimeno sosteniamo che esso non possa essere inteso in un senso fisico come infusione di rettitudine, come sostengono i Cattolici Romani, com’è provato facilmente dai passi addotti da Bellarmino stesso.

X. Infatti, in Isa. 53:11, dove è detto che Cristo con la sua sapienza giustificherà molti, è evidente che si fa riferimento alla causa meritoria e strumentale della nostra assoluzione con Dio, ovvero, Cristo, e alla conoscenza o fede in lui. Perché la conoscenza di Cristo qui non dovrebbe essere intesa soggettivamente, come riguardante la conoscenza con cui egli conosce cosa fu concordato tra sé stesso e il Padre, che non ha nulla a che fare con la nostra soddisfazione. Ma oggettivamente, come riguardante quella conoscenza con cui egli è conosciuto dal suo popolo per la salvezza, che non è altro che la fede, alla quale è attribuita ovunque la giustificazione. Le parole successive mostrano che non dovrebbe essere ricercato alcun altro senso, quando viene aggiunto, perché egli porterà le nostre iniquità, per denotare la soddisfazione di Cristo, che la fede deve accogliere affinché noi possiamo essere giustificati.

XI. Né ci mette in difficoltà il passo di Daniele 12:3. Perché, come abbiamo già detto, la giustificazione è riferita ai ministri del vangelo, come altrove lo è la salvezza dei credenti, 1 Tim. 4:16, 1 Cor. 9:22. Non certamente per mezzo di un'infusione di normale rettitudine, che non è in loro potere; ma mediante l’istruzione dei credenti, con la quale, come aprono la via per la vita, così insegnano il modo in cui i peccatori possono ottenere da Cristo la giustificazione per fede. Per cui la Vulgata non lo traduce con justificantes, ma con erudientes ad justitiam.

XII. Il passo in Apo. 22:11, Chi è giusto, lo sia ancora di più, non favorisce i nostri opponenti, come se denotasse un’infusione o un incremento di rettitudine. Infatti in quel modo sarebbe tautologico con le parole seguenti, chi è santo, sia ancora più santo, perché quella giustificazione non sarebbe differente dalla santificazione. Ma è meglio riferirlo all’applicazione e al senso della giustificazione, perché sebbene da parte di Dio la giustificazione non si realizzi in sequenza, tuttavia da parte nostra essa è compresa attraverso azioni diverse e ripetute, mentre con nuovi atti di fede noi applichiamo a noi stessi di volta in volta il merito di Cristo come un rimedio per i peccati quotidiani nei quali cadiamo. Non solo, anche se si ammettesse che qui si intende l’esercizio della rettitudine, come in un manoscritto dove abbiamo dikaiosynen poiesato, ciò potrebbe essere contrapposto alle parole precedenti: Chi è ingiusto, sia ancora più ingiusto, e l’opinione dei Cattolici Romani su quella base non sarebbe confermata.

XIII. La giustificazione degli empi, di cui Paolo parla in Rom. 4:5, non dovrebbe essere riferita ad un’infusione o incremento di rettitudine, ma riguarda la remissione dei peccati, com’è spiegato dall’Apostolo nell’esempio di Davide. Non solo, non sarebbe una giustificazione degli empi, se fosse usata in un qualunque altro senso che non fosse l’assoluzione giudiziale davanti al trono della grazia. Io confesso che Dio nel dichiarare giusto, per quella stessa ragione dovrebbe anche rendere giusto, affinché il suo giudizio possa essere secondo verità. Ma l’uomo può essere reso giusto in due modi, o in sé stesso, o in qualcun altro, o dalla legge, o dal vangelo. Dio quindi rende giusto colui che giustifica, non in sé stesso come se lo dichiarasse giusto grazie alla sua rettitudine inerente, ma grazie alla rettitudine, imputata, di Cristo. È davvero un abominio a Geova giustificare l’empio senza la debita soddisfazione, ma Dio in questo senso non giustifica alcun empio, perché Cristo ci è stato dato come un Garante che ha ricevuto su sé stesso la punizione che noi meritavamo.

XIV. Sebbene alcune parole del medesimo ordine di giustificazione denotino un effetto nel soggetto, non vi è tuttavia ragione per questa, che altrimenti barbarica è stata ricevuta nel mondo Latino, per esprimere la forza di htsdyq e di dikaioun, nessuna delle quali ammette un senso fisico. Così noi magnifichiamo e giustifichiamo Dio, non rendendolo grande invece che piccolo, o giusto invece che ingiusto, ma solo celebrandolo come tale. © 2009 federiformata.it

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