Giovanni 14:28 non nega la piena divinità di Cristo

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“Avete udito che vi ho detto: ‘Io me ne vado, e torno da voi"; se voi mi amaste, vi rallegrereste che io vada al Padre, perché il Padre è maggiore di me’” (Giovanni 14:28).

Questa dichiarazione di Gesù nel vangelo di Giovanni si può dire che sia stata, durante tutta la storia del Cristianesimo, l’arma più potente di quanti contestano la suprema divinità di Cristo. Essi, infatti, affermano che qui, anziché pretendersi uguale al Padre, Gesù proclama che Dio Padre sia superiore a Lui. Nella Chiesa antica, gli Ariani citavano questo passo ogni momento ed esso rimane il cavallo di battaglia di tutti gli anti-trinitari moderni.

Diciamo subito che questo versetto non va isolato dal contesto del vangelo secondo Giovanni e dal resto del Nuovo Testamento, dove la piena divinità di Cristo è affermata esplicitamente, testi che gli avversari di questa dottrina fondamentale tentano di distorcere in ogni modo. Basti solo citare, a titolo di esempio, “Per questo i Giudei più che mai cercavano d'ucciderlo; perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Giovanni 5:18), e “...il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente” (Filippesi 2:6).

La superiore grandezza di Dio Padre si può spiegare in due modi:

1. In rapporto alla personalità essenziale del Figlio. In questo caso, si può dire che, senza violare la Sua eterna divinità, la superiorità del Padre consiste nel fatto che il Figlio possiede la divina essenza per via di comunicazione; oppure:

2. In rapporto alla posizione del Figliuolo al momento in cui pronunziava quelle parole. In questo caso la superiorità del Padre si trova nel Suo rapporto con il Figlio, mentre questi era ancora uomo, incarnato, e non ancora glorificato.

Si tratta di una subordinazione relativa di Gesù, il Cristo, in quanto uomo e che cessa con il Suo ritorno nella gloria. Cristo non fa qui un paragone fra la divinità del Padre e la propria, né fra la propria natura umana e l'essenza divina del Padre. Qui si parla del suo stato presente, sulla terra e la gloria celeste, presso la quale sarebbe stato presto ricevuto. “Maggiore” non deve intendersi rispetto alla sua natura e gloria essenziale, nella quale il Figlio è uguale al Padre, ma rispetto all’ordine della redenzione, nella quale Dio Padre conserva la parte principale, come rappresentando tutta la Deità nella Sua gloria e maestà, ed il Figlio, quello di mediatore di riconciliazione fra Dio e l’umanità. Gesù “pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente” (Filippesi 2:6) ed in Ebrei “Tu lo hai fatto di poco inferiore agli angeli; lo hai coronato di gloria e d'onore … però vediamo colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto, affinché, per la grazia di Dio, gustasse la morte per tutti”. Mentre dura la Sua volontaria umiliazione nella condizione umana, è innegabile che Dio Padre sia “maggiore di Lui”, ma ora Egli stava per ritornare nella piena comunione del Padre, per riprendere la gloria della quale si era volontariamente spogliato per un tempo e per ricevere dalle mani di Dio Padre, quale Uomo mediatore, la ricca ricompensa della Sua umiliazione e del Suo dolore. Nel testo in esame, i discepoli di Gesù avrebbero dovuto rallergrarsi che Lui ritornasse al Padre. E’ come se Gesù dicesse: “Io me ne vado al Padre perché sono uscito dal Padre per compiere l’opera della redenzione. Il mio ritorno al Padre è prova che la redenzione è compiuta. Voi avete in questo, così, motivo di rallegrarvene, avendo in me libero accesso a Dio e alla generosa grazia di Dio”.

Per approfondire

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